Conseguenze delle terapie di conversione LGBTQ+

Il 17 maggio 1990 è una data storica per il mondo LGBTQI+. Quel giorno infatti l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha rimosso l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella classificazione internazionale delle malattie.
Nonostante si tratti di un enorme passo avanti, il nostro Paese e molti altri hanno il dovere di fare ancora molti passi avanti per rispettare pienamente i diritti di tutti e per garantire alla comunità LGBTQ+ l’uguaglianza che merita. Sono purtroppo 80 i Paesi nei quali vengono ancora effettuate le cosiddette “terapie di conversione” o “terapie riparative”, nonostante si tratti di pratiche antiquate, subdole e prive di fondamento scientifico.
Capiamo meglio di cosa si tratta e quali gravi problemi psicologici possono subire le persone sottoposte a queste “pratiche”.
Cosa sono le “terapie” di conversione
Le terapie di “conversione” si basano sulla convinzione (smentita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1990) che si nasca tutti eterosessuali e che l’omosessualità sia una malattia, indotta da condizionamenti ambientali o da traumi familiari.
La “soluzione” che viene proposta in questi centri è a dir poco assurda: tentare di modificare l’orientamento sessuale o l’identità di genere della persona facendo ricorso a teorie pseudoscientifiche, ma anche a elettroshock, esorcismo, condizionamenti comportamentali, isolamento, privazione del cibo, abusi verbali e umiliazioni, ipnosi, percosse e altre violenze cosiddette “correttive”, stupro incluso.
Tra le principali idee di fondo (prive di fondamento scientifico) delle terapie di conversione troviamo:
- l’omosessualità è un orientamento sessuale sbagliato;
- l’eterosessualità è l’orientamento sessuale naturale;
- l’orientamento sessuale è solo un comportamento, modificabile come tutti i comportamenti;
- il benessere sessuale è secondario al benessere spirituale.
In Italia, tentare di cambiare l’orientamento sessuale delle persone è considerato ancora legale e il 10% dei giovani LGBT è purtroppo vittima di pratiche di conversione.
Nel nostro Paese e in molti altri infatti, queste “terapie” non sono regolate da leggi e chi le pratica può facilmente mascherarle da supporto spirituale o vantare basi pseudoscientifiche.
Gli autori sono professionisti della salute, organizzazioni religiose, curatori tradizionali e spesso sono le famiglie e le comunità a promuovere il ricorso a queste pratiche.
Le conseguenze delle “terapie” di conversione
Queste organizzazioni, consapevoli di non basarsi su teorie scientifiche, operano in segreto, non esplicitando in modo diretto il tentativo di convertire l’omosessuale, ma dichiarando di voler “supportare chi vive con disagio la propria omosessualità”.
Le tecniche, data la loro totale inefficacia, rischiano non solo di aumentare la stigmatizzazione dei soggetti che vi fanno ricorso, ma anche di provocare gravi stati di depressione e ansia.
A questi si aggiungono i sentimenti di inadeguatezza, la sofferenza fisica e psicologica, i disturbi post-traumatici, ma anche vergogna, percezioni di inutilità, difficoltà sociali e interpersonali, alienazione, solitudine e, nei casi peggiori, un aumento degli istinti suicidiari e molteplici tentativi riusciti.
Le vittime di tali pratiche, spesso ragazzi adolescenti, sono inoltre esposte al “minority stress”, ovvero vivono un forte disagio per la condizione di minoranza e di stigma sociale in cui percepiscono di essere.
L’aiuto psicologico
Per coloro che soffrono di incertezze o dubbi sul proprio orientamento sessuale o sulla propria identità di genere, sul proprio rapporto con gli altri, con la società e con la spiritualità, la psicoterapia può rappresentare un valido aiuto per lavorare su sé stessi e prendere decisioni consapevoli sui propri progetti di vita.
Lo scopo degli interventi psicologici è quello di riconoscere e sostenere il disagio dei pazienti che appartengono a minoranze sessuali, creando un clima di accoglienza e accettazione.
Un’attenzione particolare è rivolta al sostegno degli adolescenti, i quali si trovano in una fase del ciclo di vita difficile di per sé e spesso fonte di disagio e confusione.
Il confronto con il proprio orientamento sessuale “atipico” provoca un senso di straniamento rispetto al gruppo dei pari e può far emergere nei ragazzi:
- paura del rifiuto;
- isolamento;
- rabbia e angoscia.
Un percorso psicologico diventa quindi l’occasione di riacquistare fiducia in sé stessi, per riuscire ad affrontare queste fasi delicate del loro sviluppo.
Nel caso di individui adulti, l’intervento psicologico potrebbe invece focalizzarsi sull’accettazione del proprio orientamento sessuale, oltre che su problemi della sfera sessuale e relativi allo stile di vita personale e relazionale, i quali spesso possono essere superati favorendo una maggiore consapevolezza di sé e lavorando sull’autostima personale.